Il counselor dei sistemi intimi nelle persone disabili

13483277_1039388532795713_2512943244204682969_odi Lelio Bizzarri, psicologo, psicoterapeuta e counselor.

Tratto dall’intervento al convegno “Il diritto alla sessualità nelle persone disabili” organizzato dalla Cooperativa ASPIC in collaborazione con la Provincia di Roma del 12 novembre 2004. Intervento pubblicato nella Rivista “Integrazione nella psicoterapia e nel counseling” n. 19/20 anno 2006.

Introduzione

Obiettivo di questo intervento è quello di delineare, nei tratti essenziali, la figura del counselor, evidenziando il ruolo che può assumere nella promozione del benessere sociale delle persone disabili, specificatamente in relazione ai rapporti di coppia.

Ritenere che una figura professionale, con tutto il suo bagaglio di conoscenze tecniche e qualità umane e personali, si possa proporre come facilitatore e come sostegno per lo sviluppo e la promozione della qualità di relazioni interpersonali a carattere sentimentale e sessuale, implica, in maniera quasi automatica, che tali relazioni si connotino di aspetti problematici e che non possano più essere concepite come un fatto spontaneo e naturale. È più giusto ritenere che le relazioni amorose si configurino come una costruzione sociale che riflette, in positivo e in negativo, le caratteristiche della cornice sociale, storica e culturale all’interno della quale si vanno strutturando e definendo.

D’altra parte, affermare che i rapporti di coppia fra uomini e donne sono pregni di elementi problematici non aggiunge certo niente di nuovo; da decenni, inoltre, si sono moltiplicate le figure professionali che ne affrontano gli elementi critici.

È lecito quindi chiedersi come mai si senta la necessità di proporre un nuovo strumento e una nuova figura di riferimento per le persone che si trovano coinvolte in questo tipo di problematiche. Viene inoltre spontaneo domandarsi come mai, in questa comunicazione, si voglia concentrare l’attenzione su una particolare popolazione bersaglio. Quali sono gli elementi che aggiungono specificità ad una problematica così diffusa e che appartiene a tutto il resto della popolazione? Andiamo per gradi.

La figura del counselor.

Innanzitutto, il counselor non si propone come uno specialista con un bagaglio teorico e tecnico vastissimo e complesso quale può essere quello dello psicoterapeuta o dello psichiatra. Non si propone, inoltre, di intervenire sulla drammatica complessità delle patologie conclamate.

Il counselor è una persona tecnicamente e umanamente preparata per ascoltare quanto il cliente cerca di comunicargli senza giudicare o proporre soluzioni aprioristiche, entrando in contatto empatico con l’emotività di quest’ultimo, approfondendone la conoscenza della realtà psichica e instaurando un clima di fiducia e di alleanza.

Se queste condizioni sono rispettate, il counselor riesce a restituire quanto comunicato dal cliente in maniera tale che questi faccia chiarezza dentro di sé, individui le incongruenze e cerchi di eliminarle, focalizzi i suoi obiettivi e li persegua.

Proporre la formazione in counseling a quante più persone possibile significa innescare un processo di proliferazione di figure di riferimento nella comunità che nutra di energie positive il tessuto sociale e dia linfa ad un processo di prevenzione primaria. In questo modo si può evitare, da una parte, che il disagio psichico degeneri in esiti patologici e, dall’altra, si promuove il senso di soddisfazione, benessere ed empowerment nelle persone.

La peculiarità della disabilità.

Per quanto riguarda il quesito relativo alla peculiarità della disabilità è opportuno innanzitutto affermare che molte delle questioni che ci si trova ad affrontare nel trattare i rapporti di coppia che coinvolgono una persona disabile non sono differenti da quelle relative al resto della popolazione. D’altra parte, non bisogna dimenticare che la disabilità è uno stigmasociale attorno al quale le persone sono costrette loro malgrado a costruire la propria personalità e la propria storia. Presumere di rendere giustizia alle persone disabili semplicemente facendo finta che l’handicap, con le sue implicazioni culturali e psicosociali, non esista, significa commettere un errore che ci impedisce di comprendere fino in fondo la realtà psicologica e sociale della persona affetta da menomazione fisica o sensoriale.

Esistono infiniti modi di reagire ad una condizione di disabilità o alla nascita di un figlio disabile, di conseguenza, esistono infinite forme in cui l’handicap può influenzare lo stile di personalità. In questa comunicazione non abbiamo certo la pretesa di essere esaustivi, ma possiamo provare a riflettere su quali possono essere le conseguenze dell’evento handicap a livello intrapsichico, relazionale e psicosociale.

In una persona che cresce con un senso di inferiorità o con uno stile di personalità narcisistico, alla base è possibile riscontrare un enorme portato di sofferenza, una ferita narcisistica, un lutto per la perdita del figlio ideale, uno stigma e una vergogna, che investono la famiglia e il bambino. Si può scegliere di “riparare” il piccolo corpo malato, disfunzionale e deforme con lunghe e dolorose degenze ospedaliere; Spitz (Spitz, 1945) ha ampiamente documentato gli effetti devastanti dell’ospedalizzazione sullo sviluppo psicoaffettivo.

Si può rinunciare a guarire l’handicap e illudersi che il bambino compenserà la sua disabilità con eccezionali prestazioni intellettive investendolo di aspettative così forti che gli risulterà impossibile colmare.

Ci si può illudere di poterlo proteggere, pensando di prolungare all’infinito quella fase simbiotica in cui madre e bambino sono una cosa sola, minando il processo di separazione/individuazione (Mahler, 1974).

Questi sono solo alcuni degli esempi di modi in cui l’evento disabilità può condizionare lo stile di personalità.

Attaccamento e rapporti di coppia.

Fermo restando che non rientra fra le competenze del counselor intervenire sugli effetti patologici delle carenze del Sé, è importante che egli sappia riconoscere gli stili di attaccamento o il livello di separazione-invidividuazione del proprio cliente.

Gli stili di attaccamento (Giusti, Pitrone, 2004) acquisiti nelle fasi più precoci dello svi luppo hanno il potere di determinare sia le persone dalle quali ci sentiamo attratti, sia le dinamiche delle relazioni che andiamo a costruire in età adulta.

Per un counselor, conoscere la storia del proprio cliente e riuscire ad intuire che le vicende legate alla disabilità hanno, ad esempio, favorito lo sviluppo di un attaccamento insicuro, può risultare una valida chiave di lettura delle dinamiche di coppia e delle eventuali problematiche.

Hazan e Shaker, in una ricerca condotta nel 1987, hanno riscontrato che:

  • nelle coppie costituite da partner con attaccamento sicuro le esperienze amorose sono vissute con maggiore positività e vi è maggiore reciprocità nelle richieste ed offerte d’amore;
  • in quelle con un modello evitante invece si ha il timore dell’intimità in quanto si ha paura di dipendere dall’altro;
  • in quelle con un modello ansioso ambivalente i partner vivono costantemente la paura dell’affidabilità dell’altro e la sua disponibilità a soddisfare le richieste affettive.

Attribuzione causale ed handicap.

È importante tenere presente che la disabilità non funge solo da fattore co-determinante dello stile di attaccamento, ma può anche essere un elemento cui il cliente può agganciare la propria razionalizzazione circa le sue difficoltà relazionali, distogliendo la sua attenzione e quella degli altri (counselor compreso) dal nucleo centrale delle sue problematiche.

Così, può accadere che il cliente portatore di handicap incontri enormi difficoltà nell’effettuare tentativi di approccio con persone dell’altro sesso, oppure non riuscire ad approfondire il livello di intimità con il/la proprio/a partner perché ha appreso durante lo sviluppo psicologico un senso di precarietà nelle relazioni significative. Egli però tenderà a dare una spiegazione razionale del suo comportamento basandosi sullo stereotipo, socialmente diffuso e culturalmente fondato, dell’indesiderabilità sessuale di una persona disabile.

Allo stesso modo le persone che si relazionano con il nostro cliente possono finire per compiere un errore analogo attribuendo indebitamente pensieri e sentimenti negativi o spiegando la sua timidezza attraverso l’handicap, come è stato evidenziato dalla ricerca riportata nel testo della dott.ssa Panier Bagat “L’altra crescita” (Bagat, Sasso, 1995).

In sintesi, la menomazione funge da elemento catalizzatore all’interno del processo di attribuzione causale circa il proprio e l’altrui comportamento, una scorciatoia euristica che può costringere la persona disabile in un circolo vizioso che sviluppa e rafforza un’immagine della disabilità caratterizzata da una ineluttabile ed immutabile emarginazione.

Per il counselor dei sistemi intimi la teoria dell’attaccamento può funzionare come una bussola attraverso la quale avere una visione completa del proprio cliente, della sua personalità e della sua condizione oggettiva di handicap, e restituire a questi due elementi il giusto peso nella determinazione delle vicende del cliente. In questo modo egli può sfuggire alla logica secondo la quale una persona disabile è destinata all’emarginazione e può restituire un senso di controllo e di autoefficacia nelle relazioni interpersonali. Il cliente può così consapevolizzare che è un elemento attivo nella caratterizzazione dei suoi rapporti e può migliorarne la qualità lavorando sulle rappresentazioni di sé e degli altri e sul modo di proporsi.

Tutto ciò, ovviamente, senza negare l’esistenza di pregiudizi e stereotipi che rimangono uno È opportuno notare che quando il counselor si accorge che lo stile di attaccamento è segnato così in profondità da determinare nel cliente copioni relazionali reiteratamente disadattivi, ha l’obbligo di proporre al cliente stesso l’invio ad uno psicoterapeuta e, se necessario, lavorare sull’accettazione di questo tipo di intervento strutturale.

Le dinamiche familiari.

L’evento disabilità non ha solo un effetto sulla personalità di chi ne è portatore, ma anche sulla famiglia. Le cure di cui alcune patologie invalidanti necessitano possono influenzare fortemente i rapporti tra i membri della famiglia e tra essi e il bambino disabile.

La madre, in genere, concentra la sua attenzione sulla cura dei figli ed in particolare sul figlio disabile; il padre può sentirsi escluso dall’intensa relazione fra madre e figlio o autoescludersi, perché stare in una famiglia con un figlio disabile può essere troppo doloroso, trovando nel lavoro un ambito socialmente approvato per evadere.

I rapporti fra coniugi, già minati da reciproci rancori inconsapevoli per la nascita di un bambino disabile, possono essere caratterizzati da una scarsa intimità in ragione e con l’alibi della cura del figlio disabile.

In un quadro emotivo di questo genere, il sistema familiare viene a strutturarsi come una rete di sostegno caratterizzata da legami molto intensi che non favoriscono il cambiamento. I coniugi possono sostituire l’amore e l’intimità, che si sono dissolti, con il senso di responsabilità verso il figlio disabile, il quale diventa l’unico collante del sistema-famiglia. I rapporti sono scarsamente improntati su emozioni positive e principalmente motivati dal senso di colpa e di responsabilità.

In età adolescenziale il figlio disabile, dal canto suo, può avviare un normale processo di autonomizzazione dalla famiglia e proiettarsi verso l’instaurazione di relazioni extrafamiliari.

Istintivamente il sistema famiglia può reagire per evitare la disintegrazione, ostacolando questo movimento di individuazione del ragazzo e interferire con le relazioni extrafamiliari, comprese quelle a carattere sentimentale.

Inoltre, un’eventuale delusione amorosa del figlio disabile può riattivare un’antica ferita narcisistica dei due genitori legata alla disabilità. Per un motivo o per l’altro i desideri del figlio costituiscono una minaccia.

L’intimità del rapporto di coppia viene così messa a rischio.

I familiari hanno un ampio repertorio di elementi razionali da usare per interferire nelle relazioni sentimentali che il figlio/a intraprende:

  • possono usare le difficoltà di movimento autonomo dovute alla menomazione e in questo modo non permettere che si creino le condizioni necessarie all’instaurazione di un clima di intimità;
  • oppure, nascondendosi dietro l’intenzione di proteggere l’adolescente da quella che si ritiene un’inevitabile o molto probabile delusione, possono cercare di indurre il ragazzo a desistere dall’intraprendere relazioni di coppia;
  • rispetto a questo tipo di problematiche il ruolo del counselor può essere molteplice e a diversi livelli;
  • può lavorare con il ragazzo/a disabile sostenendolo nel suo processo di emancipazione dalla famiglia, sia per accrescerne l’autostima e l’assertività, sia ricercando soluzioni pratiche per raggiungere il massimo livello di autonomia possibile; in questo modo possiamo esortare il nostro giovane cliente a rendersi responsabile di se stesso e delle sue problematiche, ad elaborare strategie per superare le sue difficoltà, e a trovare il coraggio per proporsi nelle relazioni;
  • oppure il counselor può lavorare con i singoli componenti della famiglia; attraverso un approccio caratterizzato da empatia e da accettazione incondizionata, può condurre questi ultimi verso la consapevolizzazione delle loro incongruenze e può sostenerli nelle loro paure ed angosce. Per salvaguardare il sistema-famiglia e tutelare i desideri del ragazzo/a disabile può essere utile lavorare sulla coppia genitoriale cercando di recuperare un’antica intimità e accompagnando il sistema famiglia nella ridefinizione di se stesso; i genitori devono smettere di trattenere il figlio perché è la loro unica ragione di vita e trovare nuovi interessi, nuovi equilibri, nuove ragioni.

Altre problematiche.

Ma le problematiche derivanti da una menomazione fisica non si esauriscono certo in un impatto a livello dello sviluppo psicogenetico o a livello delle dinamiche familiari. Come già detto, la disabilità è uno stigma sociale che determina una condizione di disagio e svantaggio reale in tutti gli ambiti della vita, compresi quelli dei sentimenti e della sessualità.

Innumerevoli sono gli elementi che allontano una persona portatrice di handicap dai modelli culturalmente riconosciuti come attraenti e seducenti:

  • la condizione di disabilità in sé e per sé attiva fantasmi ed emozioni negative che possono creare disagio nella relazione;
  • il bisogno di assistenza rievoca un modello relazionale di cura piuttosto che un modello di relazione sentimentale e sessuale;
  • la deformità che alcune patologie ortopediche implicano può far deviare l’immagine di chi ne è affetto dai canoni estetici affermati;
  • il carattere degenerativo di alcune patologie (che può condurre fino alla morte) può spingere sia la persona disabile che gli altri a desistere dall’impegnarsi nel rapporto di coppia e di dare ad esso una progettualità; a questo proposito ricordiamo che secondo Sternberg la progettualità è un elemento imprescindibile del rapporto di coppia, insieme alla passione e all’intimità.

Questi sono solo alcuni degli elementi più critici che una persona disabile si trova ad affrontare nel percorso di seduzione. È ragionevole pensare che le delusioni e i fallimenti possano essere probabili e dolorosi.

L’alleanza di lavoro.

Laddove un uomo o una donna con disabilità non trovino un sostegno adeguato nella loro rete di sostegno informale, possono trovare nel counselor una figura di riferimento che dovrebbe essere in grado di entrare in contatto empatico con la sofferenza, che si astiene dal giudicare o dare consigli e non propone incoraggiamenti banali nei quali non crede.

Il condizionale è d’obbligo perché, almeno secondo quanto affermato da uno dei maestri della psicologia umanistico-esistenziale, Carl Rogers, il cliente può sentire di poter dare sfogo alla sua sofferenza ed esplorare i nuclei più dolorosi della sua realtà interiore solo se il counselor si relaziona durante il colloquio con un atteggiamento caratterizzato da autenticità, considerazione positiva incondizionata ed empatia.

Con le parole di Rogers (Rogers, 1970) possiamo spiegare che:

  • autenticità significa “non assumere mai, né consciamente né inconsciamente, atteggiamenti di circostanza”;
  • considerazione positiva incondizionata significa “accettare con calore ogni aspetto dell’esperienza del cliente, in quanto parte essenziale di esso”;
  • empatia significa “sentire l’ira, la paura, il turbamento del cliente come se fossero nostri, senza aggiungervi la nostra ira, la nostra paura, il nostro turbamento”.

Perché il counselor possa rispettare queste imprescindibili condizioni deve ricordare sempre di essere un soggetto sociale e in quanto tale veicolo di tutti gli aspetti della sua cultura, positivi e negativi. Deve quindi rintracciare dentro di sé tutti gli stereotipi, pregiudizi, teorie implicite e affermazioni di buon senso, anche quelle più negative e inconsapevoli.

Anche se è impossibile sradicarle completamente dal proprio bagaglio culturale, è fondamentale tenerle presenti affinché esse non entrino maldestramente a far parte della relazione counselor-cliente.

Il counselor deve essere consapevole del fatto che:

  • può provare sentimenti di disagio a causa della menomazione del proprio cliente;
  • può ritenere che una persona disabile sia sessualmente indesiderabile e perciò pensare dentro di sé che i desideri sentimentali e sessuali siano senza speranza di soddisfazione;
  • può pensare che sia immorale desiderare dei figli, a rischio di trasmettere loro una malattia genetica;
  • può credere che la condizione di disabilità sia una condizione irrimediabilmente disperata e investire il cliente con sentimenti di sconforto.

Queste ed altre idee preconcette sono incompatibili con la necessità di costruire una relazione terapeutica improntata sulla fiducia, l’autenticità e il contatto empatico. Come può un counselor, ad esempio, sostenere il proprio cliente nella costruzione di relazioni sentimentali se ritiene questo obiettivo irrealizzabile? E come può, d’altra parte, il cliente aprirsi fino in fondo con il counselor se si rende conto che quest’ultimo crede che i suoi sentimenti di amore per una persona non saranno mai ricambiati? Come può un cliente dare sfogo al suo dolore se il counselor non riesce a sostenerlo o se si sente giudicato e disapprovato? Laddove il counselor riscontri problemi di questo tipo, ha l’obbligo di lavorare su di essi eventualmente con l’aiuto di un supervisore. Nel caso non riesca comunque a superare questi problemi è auspicabile che invii il cliente ad un collega.

Conclusioni

Abbiamo sottolineato alcuni degli aspetti problematici delle relazioni sentimentali per le persone disabili, con l’intento di affermare un approccio positivo, un senso di controllo e di empowerment, per rifiutare ogni concezione di buonsenso secondo la quale esiste un limite che le persone disabili dovrebbero porre alle loro aspirazioni e ai loro desideri.

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