Panoramica sul disagio femminile

2006_integrazione-donneDi Claudia Montanari Presidente della Cooperativa Sociale di Solidarietà ASPIC psicologa, psicoterapeuta, supervisore.

Tratto dall’intervento al convegno “Sentieri in/visibili dell’identità femminile” organizzato dalla Cooperativa ASPIC in collaborazione con la Provincia di Roma del 29 novembre 2004. Intervento pubblicato nella Rivista “Integrazione nella psicoterapia e nel counseling” n. 19/20 anno 2006

Introduzione

Il disagio femminile affonda le sue radici in molteplici terreni, le sue origini possono essere rintracciate nella storia, nella cultura, nelle convinzioni religiose, in motivi di ordine socio-economico: sono diversi vertici da cui è possibile considerare il problema. Devo però fare una scelta, scegliere un punto di vista e privilegiarlo rispetto agli altri. Ciò non vuol dire escludere degli altri punti di vista, piuttosto mettere alcuni dati, alcuni elementi sullo sfondo per portarne altri in primo piano, senza dimenticare le connessioni ed i collegamenti. In questo mio intervento prediligerò un’ottica psicologica, cercherò di tracciare, illustrando alcune teorie, le possibili origini del disagio femminile senza dimenticare, anzi sottolineando, come questo sia connesso al disagio maschile, l’uno alimenta l’altro in un drammatico circolo vizioso. Nella nostra società aspirare a determinare la propria vita è essenziale, ma per il femminile la progettazione della propria vita è ancora vaga e dubbia: un lavoro interessante, un rapporto di coppia paritario, amore, rispetto e quant’altro, oppure una famiglia con dei figli come unica prospettiva. Di fondo rimane sempre il messaggio che: “Puoi studiare, laurearti, trovare un lavoro: ma a condizione che tu rimanga dipendente”. Il disagio più profondo è, dunque, la dipendenza; sei nata femmina, “va bene ti accetto” ma a condizione che tu resti dipendente. Per quanto la donna possa andare lontano, sarà sempre legata dal suo elastico, più o meno lungo, che, ad un certo punto, la riporterà indietro, alla base. Indagare le origini e le cause di questo disagio generale e generalizzato implica un passaggio ulteriore, ovvero pensare al femminile come inestricabilmente legato al maschile, se dunque vogliamo capire i motivi, le implicazioni e le possibili soluzioni al disagio di genere, non possiamo prescindere dal considerare “l’altra metà del cielo”, come spesso si dice in riferimento all’universo femminile.

È opportuno dedicare un po’ di spazio al tema del disagio femminile in un’ottica generale per poterlo affrontare in un modo che riguardi tutte le donne, come qualcosa di connesso al genere. Il disagio femminile come disagio di genere.

IL DISAGIO: patologia o normalità?

Nell’introdurre il tema del disagio ritengo importante puntualizzare sul significato del termine e sull’accezione che intendo attribuire ad esso. Parlando di disagio pensiamo solitamente ad una situazione patologica, a qualcosa che ha a che fare con la malattia, e che necessita di una cura. Se consideriamo l’etimologia del termine, la parola, di origine latina, è composta da un suffisso dis-, che si trova con significato peggiorativo in molti termini nei quali indica alterazione, malformazione, difettoso funzionamento o anomalia, e dalla parola agio, comodità, dunque stiamo parlando di uno stato in cui manca qualcosa che permetta una condizione di agio, di comodità, di benessere. Il benessere in generale e il benessere psichico in particolare, come ben sappiamo, non è una condizione automatica garantita dalla semplice assenza di malessere. In un bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (1989), dedicato alla definizione di salute, viene puntualizzato il concetto di benessere psicofisico come presenza di alcune condizioni, invece dell’accezione corrente di assenza di malattia. Questo per puntualizzare l’importanza di un approccio al disagio che consideri il problema come una componente della vita quotidiana, della normalità piuttosto che della patologia, dell’eccezionale, della deviazione dalla norma. Tornando al tema più specifico del disagio femminile, è curioso rilevare il modo in cui due libri che ho consultato esordiscono parlando rispettivamente delle donne e degli uomini (Goldhor Lerner, Donne in terapia; Giusti, Fusco, Uomini). A proposito del disagio femminile leggiamo come il tentativo continuo da parte delle donne di conformarsi alle idee prevalenti su ciò che è giusto e appropriato per il proprio sesso abbia avuto un costo psicologico altissimo, anche perché le teorie sulla psicologia femminile sono sempre state considerate come verità a sé stanti, che non hanno tenuto in alcun conto l’impatto che possono avere sullo sviluppo della femminilità sia i ruoli sessuali all’interno della famiglia o sul posto di lavoro, sia la psicologia dei gruppi dominanti e subordinati. In modo che definirei speculare, gli autori di Uomini scrivono, dopo aver tratteggiato le origini degli stereotipi e dei ruoli maschile e femminile: “Il privilegio maschile diventa trappola, tensione e scontro permanenti, che ogni uomo si vede imporre dal dovere di affermare in qualsiasi circostanza la sua virilità (a partire dall’area sessuale). La virilità, intesa come capacità riproduttiva, sessuale e sociale, ma anche come attitudine alla lotta e all’esercizio della violenza, è prima di tutto, un carico. L’esaltazione dei valori maschili ha una contropartita tenebrosa nelle paure e nelle angosce che la femminilità suscita; l’ideale impossibile della virilità diventa il principio di un’immensa vulnerabilità […]” (p. 31). Parlare di disagio femminile implica, quindi, affrontare il disagio maschile e viceversa, le due forme di disagio legate al genere si determinano e si alimentano vicendevolmente. I ruoli dettati dalla società si riproducono attraverso le loro “vittime”. La logica paradossale del dominio maschile e della sottomissione femminile si capisce solo se si prende atto degli effetti durevoli che l’ordine sociale esercita su di loro, e cioè delle predisposizioni spontaneamente adattate a quell’ordine che essa impone. Si tratta di un dominio simbolico che va al di là della coscienza e della volontà delle donne (Giusti, Fusco, 2001). Ci si può aspettare una rottura del rapporto di complicità solo attraverso una trasformazione radicale delle condizioni sociali di produzione del proprio modo di essere donna e uomo, che portano i dominati ad assumere il punto di vista dei dominanti. Il passaggio a nuovi modi di relazionarsi è possibile solo attraverso la destrutturazione degli stereotipi, che, come Sisifo il suo macigno, uomini e donne portano sulle loro spalle.

GLI STEREOTIPI: come si alimentano, e quali danni producono?

Dalla letteratura sull’argomento sembra emergere un dato sugli altri, ovvero il costo psicologico rappresentato dagli stereotipi. Sia per le donne, storicamente svantaggiate, vittime di un sistema di dominio androcentrico, sia per gli uomini, detentori di tale dominio, i modelli sociali, gli stereotipi di ruolo hanno avuto e continuano ad avere un peso eccessivo da sostenere che danneggia entrambe le parti. In una società che per secoli ha relegato le donne nell’ambito familiare, casalingo o comunque a ruoli di accudimento, alla sfera “privata”, e consentito agli uomini il dominio della sfera “pubblica” (della politica, delle scienze, della religione, delle arti), ci troviamo oggi di fronte ad un paradosso sia per le donne che per gli uomini. Se infatti le prime si riconoscono e hanno riconosciuta la possibilità di sentirsi connesse, di avere legami empatici, di mettersi nei panni degli altri, i secondi hanno imparato a disprezzare queste qualità e a sopravvalutare l’ideale di autonomia a tutti i costi. Il paradosso consiste nella carenza e nella delusione di aspettative di fronte a cui si trovano tanto gli uomini quanto le donne. Si è creata un’incomprensione di fondo e un’incapacità ad accettare i sentimenti ed i desideri che appartengono culturalmente all’altro sesso. Quando un uomo o una donna cercano di appropriarsi degli atteggiamenti e dei sentimenti associati al sesso opposto, spesso lo fanno a scapito di ciò che è considerato adatto al loro sesso; l’uomo che cerca di sviluppare sensibilità e tenerezza o la donna che persegue l’autonomia e l’affermazione di sé a tutti i costi, riproducono il paradosso che non aiuta l’incontro tra i due sessi, che si rifugiano in amori allo specchio. Non viene perseguita l’integrazione ed il confronto ma si privilegia e ostenta ciò che normalmente è rifiutato. Questo, come dicevo, è un’inversione delle parti e non un superamento del conflitto tra femminile e maschile. Nozioni stereotipate di maschilità e femminilità hanno un effetto costrittivo e inibitorio sullo sviluppo. I bambini vengono incoraggiati a conformarsi a generalizzazioni idealizzate di quel che dovrebbero essere, con un messaggio di accettazione condizionata che ha come conseguenza patogena la percezione di non essere completamente amati ed accettati per quello che si è. Di conseguenza alcuni aspetti del proprio sé saranno negati e abbandonati con profondi sensi di colpa, angoscia e inibizione qualora risultino inappropriati al genere di appartenenza. Uomo e donna, maschile e femminile, nella nostra società e nella nostra cultura sono associati ad una serie di caratteristiche considerate opposte tra loro. Gli stereotipi che accompagnano gli individui di un sesso o dell’altro sono considerati come “naturali”; questo vale per ogni caratteristica, positiva o negativa che sia. Il problema rappresentato dallo stereotipo è proprio questo: una volta stabilizzatosi è difficile modificarlo, si tratta di una rappresentazione sociale che viene accettata come valida e rispondente alla realtà anche da chi nello stereotipo non si riconosce, o nei fatti non vi rientra. Il femminile sarebbe caratterizzato da: dipendenza, passività, fragilità, mancanza di aggressività e competitività, introversione, tendenza ad adeguarsi agli altri e a vivere di riflesso, sensibilità, soggettivismo, intuito, ricettività, emotività, bisogno di appoggio. Mentre per il maschile sarebbero appropriate caratteristiche opposte e speculari: indipendenza, aggressività, competitività, senso del comando, senso del dovere, estroversione, dogmatismo, innovazione, autodisciplina, stoicismo, attività, obiettività, capacità analitica, realismo, razionalità, fiducia in sé, egoismo, prepotenza, narcisismo. Si può notare come in entrambi i profili sia possibile identificare caratteristiche desiderabili e positive, altre decisamente poco lusinghiere. Proviamo ad analizzare le possibili origini di questa categorizzazione. Dal momento che numerosi studi hanno ormai dimostrato che non esiste una natura intrinseca, maschile o femminile, di origine biologica – addirittura la descrizione anatomica è culturalmente costruita, le rappresentazioni degli organi sessuali sono il frutto di una scelta di accentuare o sminuire certe caratteristiche – possiamo immaginare che le donne, in particolare, abbiano sviluppato certe attitudini svolgendo per secoli determinate mansioni, che richiedevano sensibilità, cura per gli altri, abnegazione di sé. La donna per secoli è stata relegata nel mondo privato, nella casa, ad accudire i figli, dunque ha potuto specializzarsi in un ruolo che richiede le caratteristiche che sono considerate naturali, in un inversione dell’ordine di causa-effetto. Questo discorso vale anche per l’uomo, l’autonomia, l’indipendenza, l’intraprendenza, il pensiero razionale, non sono innate ma il prodotto di un’educazione specifica e di circostanze ambientali che hanno favorito, o imposto, questa specializzazione dei ruoli. Prendendo atto che storicamente questa divisione può aver rappresentato dei vantaggi per i gruppi umani che l’hanno adottata, dobbiamo chiederci che senso ha continuare a portarla avanti, ma soprattutto in che modo venga portata avanti e come questo circolo “vizioso” possa essere interrotto per dare la possibilità a tutti gli individui di costruire la propria identità. Le caratteristiche femminili di interconnessione, di capacità di stabilire legami intimi, di empatia emotiva, sarebbero l’effetto della possibilità che hanno le bambine di rimanere più a lungo vicine alla madre. Questa vicinanza, proprio a causa degli stereotipi ai quali gli individui devono piegarsi, è impedita ai bambini, o comunque i maschi sono costretti ad allontanarsi prima, e più bruscamente dalla figura materna per potersi differenziare e sviluppare un’identità maschile. In realtà anche gli uomini, come tutti gli essere umani, sentono il bisogno della vicinanza, della condivisione, dell’interconnessione agli altri, ma, memori della ferita inferta loro, la separazione dalla madre, esaltano le virtù dell’indipendenza e dell’autonomia, per paura di soffrire nuovamente. Nella svalutazione della donna si riconosce una manovra difensiva, quella della svalutazione di un oggetto invidiato, che, una volta spogliato delle sue qualità desiderabili, viene reso non più invidiabile. Anche Kernberg (1978) ha riscontrato che i suoi pazienti, borderline e narcisistici, si difendono da un’intensa invidia ed odio per le donne attraverso la svalutazione, come svalutazione della madre, oggetto primario di dipendenza. Il desiderio di dipendenza rappresenta una vulnerabilità e ai maschi viene insegnato che non devono essere vulnerabili, per potersi difendere da questa tentazione svalutano chi può renderli indifesi ed attaccabili, la donna o meglio la madre che ricorda loro quanto sono stati dipendenti e bisognosi di cure. Dunque la donna, svalutata e sottomessa, ha in realtà un grande potere verso gli uomini, per mantenerlo e sentire di valere qualcosa deve accettare il ruolo di colei che dedica se stessa e la propria vita agli altri, al marito, ai figli. Così facendo crescerà figlie sottomesse pronte all’abnegazione, e figli spaventati dal potere che le donne possono avere su di loro. Questo quadro probabilmente è distorto e porta alle estreme conseguenze delle tendenze presenti ma non assolutizzabili. Può servire però a rendere l’idea di quanto dannosi siano gli stereotipi in sé. Molte persone, uomini e donne, anche se non si comportano secondo gli standard del maschile e del femminile, continuano a riproporre e riprodurre la convinzione che la distinzione tra i due sessi sia incolmabile e naturale. Dunque sarebbe importante portare avanti una battaglia culturale non tanto per rovesciare gli stereotipi, affermando che le caratteristiche femminili sono positive, e quelle maschili, al contrario, non sono desiderabili, ma quanto per affermare l’infondatezza di questi assunti e la nocività della loro stessa esistenza. A tal proposito mi sembra opportuno citare un’antropologa, divenuta famosa per i suoi studi sul tema del maschile e del femminile, Margaret Mead, che nel 1935 scriveva: Così l’esistenza, in una società, di una dicotomia della personalità sociale, di una personalità determinata e limitata dal sesso, rappresenta in maggiore o in minor misura, una condanna per tutti gli individui nati in quella società. Quelli il cui temperamento è decisamente aberrante non riescono ad adattarsi ai modelli riconosciuti e, con la loro stessa presenza, con l’anomalia del loro comportamento, confondono le idee a quelli che si conformano al temperamento previsto per il loro sesso. Avviene così che in quasi tutti gli uomini e le donne si insinui un seme di dubbio, di ansietà, che disturba il corso normale della vita. (1950, p. 320) La separazione per gruppi omogenei, a prescindere dai criteri, neri e bianchi, cattolici e musulmani, uomini e donne, mantiene la divisione, il potere del più forte sul più debole, una componente complice dell’altra. Le donne, come madri, mogli, sorelle e figlie, si rendono responsabilmente complici, perché sottomesse al mito dell’uomo, costrette in un limbo, in una eterna spirale di complicità e corresponsabilità. La riproduzione di questi rapporti dipende dai processi di crescita e socializzazione. I figli, crescendo, si individuano dai genitori, e questo è vero per entrambi i sessi. Dalla simbiosi con la figura materna i figli, maschi e femmine, nel periodo che va dalla nascita all’adolescenza si distaccano guardando al mondo attraverso il padre. Questo passaggio inizia, nel maschio, con una necessaria defemminilizzazione che gli permette di differenziarsi dalla madre per raggiungere l’identità intrapsichica maschile (Baldaro Verde, Nappi, 2002), e il processo continua grazie all’identificazione con il padre; per la femmina, invece, il percorso è meno lineare, infatti dopo essersi resa autonoma attraverso il rapporto con la figura paterna, per potersi individuare deve ritrovare se stessa e la madre, iniziare un percorso di identificazione che sarà nel contempo di distacco per creare con lei un rapporto di reciprocità, non di sostituzione poter trovare la sua femminilità. Il processo è oggi più ricco di potenzialità, grazie all’emancipazione della donna, ma anche più difficoltoso e irto di ostacoli. Le donne si trovano ad affrontare i sensi di colpa, indotti da padri sempre più impauriti dalle nuove conquiste femminili, che temono di essere abbandonati, spodestati, disconosciuti nel loro ruolo. Anche le madri temono il rischio che i cambiamenti comportano, questo le rende ansiose, spaventate, controllanti, ossessive, ambivalenti, vogliono vicinanza e lontananza contemporaneamente, quando le figlie si differenziano nel continuum di quel processo che permetterà l’individuazione e il raggiungimento della costanza dell’oggetto.

Questa situazione anche se potenzialmente problematica è comunque auspicabile, infatti parliamo di un’esperienza di crescita in cui sono presenti entrambi i genitori. Le difficoltà maggiori si hanno quando, come spesso accade, il padre non è presente nei rapporti familiari. Sono numerose le famiglie in cui la figura paterna è assente; oltre ad essere dannoso per i figli, questo ha come conseguenza di far ricadere sulla madre tutte le responsabilità, e dunque le colpe. L’assenza del padre, se non è fisica, può dipendere da molteplici fattori: dalle sue difficoltà a ricoprire un ruolo di accudimento ed educativo, dal desiderio della madre di accentrare su di sé il controllo dei figli. La madre che ha bisogno di sentirsi indispensabile impone ai figli la sua presenza totalizzante, il suo aiuto ed il suo amore, un amore a condizione che non venga abbandonata, lasciata sola, svuotata e annullata, frustrata e minacciata nella sua identità sociale e personale. Questo è l’unico modo che ha trovato, che le è stato lasciato dall’educazione ricevuta, per sentirsi accettata, per riconoscere a se stessa un valore. L’autostima non passa per il riconoscimento dei propri bisogni e la loro soddisfazione, al contrario segue la strada della negazione totale di spazio a se stessa; l’abnegazione di sé permette il ricatto per ottenere devozione, e dunque riconoscimento dai figli, che finiscono per essere dominati invece che incoraggiati a vivere. Citando Fornari: «Come senz’acqua non può nascere nessun frutto sulla Terra, così senza codice materno, nessun bimbo umano potrebbe sopravvivere. Ma se l’acqua diventa inondazione, allora può distruggere le cose che ha generato». Questo meccanismo viene attuato sia nei confronti dei figli maschi che delle figlie femmine, con esiti assai diversi ma dannosi per entrambi. I maschi per costruire la loro identità si separano, o vengono separati, dalla madre, dunque il potere che ella esercita viene ridimensionato da questa separazione. Ma per sottrarsi al dominio di una madre che ha sottolineato ed accentuato la dipendenza del figlio da sé, sarà portato a svalutarla e denigrarla, con conseguenze deleterie per il suo futuro rapporto con le donne, che sono percepite come un pericolo per la propria mascolinità: potrebbero dominarlo e farlo sentire meno uomo di quanto la società richieda di essere. Un’altra manovra tipica è quella della svalutazione dell’oggetto invidiato, che, una volta spogliato delle sue qualità desiderabili, viene reso non più invidiabile e inoltre, nel processo di separazione il maschio è agevolato dal fatto di doversi, secondo ciò che gli viene trasmesso dal modello culturale dominante, identificare con il padre, che per quanto assente costituisce comunque il suo punto di riferimento. Stare fuori casa la maggior parte del tempo per lavoro è il suo modo di stare in famiglia, il suo ruolo; questo è il modello che il figlio segue, che gli permette di contrapporsi alla madre per appropriarsi e per conquistare un suo spazio. Le femmine, invece, non hanno questa possibilità poiché il loro “compito” è quello di identificarsi con la madre, perciò continuano a rimanere fedeli a lei, a starle accanto, a non deludere le sue aspettative, la loro femminilità passa per l’identificazione con il ruolo proposto – e imposto – dalla madre. Diventeranno perciò l’incarnazione di ciò che il maschio teme, la donna divoratrice e dominatrice, pronta a sacrificare se stessa in cambio della totale devozione. Le donne di oggi, nuove e diverse – o così si vorrebbero – rispetto a quelle di “ieri”, trovano difficoltà a riconoscersi perché non sono state “viste” dalle madri e lo specchio bidirezionale fra madre e figlia restituisce un’immagine distorta. È simile allo specchio infranto di Lacan. Immaginate di guardarvi in uno specchio rotto che riflette un’immagine frammentata. Crediamo così nel “falso sé” che scuola, genitori, società ci propongono come verità. Quando non c’è stata l’opportunità di sviluppare un forte senso dell’Io si fatica a sentirsi bene in modo costante. Le madri, oggi, per essere un modello utile per le loro figlie devono scoprire ed affrontare i sentimenti d’inferiorità che hanno interiorizzato. Alcune madri, rendendosi conto della svalutazione sociale della donna, cercano attivamente di non riproporre il cliché che le loro madri inconsciamente hanno trasmesso (la sensazione di essere da meno, di non valere), e per riparare la ferita narcisistica che è stata loro inflitta finiscono per pretendere troppo dalle figlie, cercando di trasformarle in donne «perfette», per renderle in grado di affrontare la società ostile. Così anche i tentativi di affrancarsi da una condizione di svantaggio diventano, invece che fonte di soddisfazione, motivo di malessere e ostacolo alla propria realizzazione. In queste possibili situazioni di crescita e differenziazione, è evidente la mancanza della figura paterna sin dal primo sviluppo, infatti la partecipazione di entrambi i genitori alle cure parentali per/metterebbe lo sviluppo di relazioni paritarie, aperte e permeate di un reciproco rispetto. Mantenere un modello in cui la relazione con il padre è secondaria e successiva a quella della madre ha un costo terribile, come abbiamo visto, per la crescita degli uomini e delle donne. Se gli uomini si occupassero maggiormente della cura dei loro bambini, anche piccolissimi, avrebbero la possibilità di entrare in contatto con parti di sé svalutate o dimenticate, dunque ne trarrebbero giovamento non solo i figli ma loro stessi, e questo contribuirebbe a superare i problemi che un’eccessiva divisione dei generi comporta. Jung (1927) pensava che l’impresa alla base della crescita personale fosse quella di vedere il valore di entrambe le parti e cercare di integrarle in modo che potessero lavorare insieme in un modo fruttuoso per la persona. Una diversa gestione delle cure parentali potrebbe prevenire anche una serie di difficoltà che emergono nell’adolescenza. Per la ragazza adolescente essere riconosciuta ed accettata dal padre, in questa fase in cui inizia a diventare donna, è fondamentale per la realizzazione del processo di autonomia. Questa accettazione deve essere presente anche quando questo processo prende la forma della contestazione. Il mancato riconoscimento del padre, per paura che, accettando la sessualità della figlia, emerga il desiderio dell’incesto, porta la figlia a cercare una definizione della propria identità attraverso modalità negative per se stessa, la compiacenza o la ribellione.

La patologia

A volte, disagio e patologia si intrecciano, i loro confini diventano talmente sfumati da rendere ardua la distinzione tra l’uno e l’altra. Spesso il disagio si trasforma in patologia sotto il condizionamento delle pressioni sociali, o come unica modalità accettata per manifestare i bisogni inespressi, insoddisfatti, misconosciuti. Voglio parafrasare a questo proposito la collega Elvira Reale (2002), e affermare che la cultura è contro le donne perché le ha definite deboli, inferiori, prigioniere di passività e dipendenza, sottomesse alle vicende biologiche del ciclo e della maternità che hanno scandito anche le diagnosi psichiatriche: psicosi puerperali, depressione post partum e menopausale, disturbi psichici relativi al menarca, oppure l’anoressia legata all’immagine corporea. Considerare il disagio una malattia significa scollegarlo dalla storia e dalla vita quotidiana delle donne e dalla loro normalità. La depressione, gli attacchi di panico, i disturbi alimentari, il disturbo di personalità permettono alle donne di trovare una ragione socialmente accettata alla loro infelicità e possono essere dei modi per mascherare la rabbia.

  • l’anoressica che ha intrapreso una dieta per essere potente e indipendente, rinnega se stessa perdendo tutti gli attributi femminili, la propria fertilità;
  • gli attacchi di panico molto spesso sono espressione del terrore più grande legato al proprio desiderio, al messaggio più castrante: “se desideri, se provi piacere sei una prostituta”, e quale prigione può essere più forte di quella che ci costruiamo con la nostra psiche. Le barriere del panico: “se rimango chiusa in casa, se vengo accompagnata ogni volta che esco, se non sono più indipendente, mio malgrado; sono al sicuro, lontana dal pericolo”;
  • nella depressione, la rabbia, un sentimento importante generalmente vietato alla femmina, viene retroflesso contro se stessa;
  • nella bulimia, lo stesso sentimento, è vomitato garantendo comunque la compiacenza e l’adeguamento alle richieste dell’ambiente sociale.

Per nascondere la propria ira si può ricorrere anche ad altre forme, come il martirio, l’ascetismo, un’etica puritana del lavoro, l’orgoglio per il proprio senso del dovere e della responsabilità. Prima di poter essere trasformata l’ira deve essere riconosciuta e liberata. Sotto l’ira c’è vulnerabilità e la possibilità di tenerezza e di rapporto intimo. Può accadere che insieme alla rabbia si tengano nascoste anche le lacrime e la tenerezza. L’ira può permettere un’esperienza d’amore più completa sia a livello fisico che emotivo. Queste sofferenze, di cui la donna è portatrice, provengono dalla mancata autonomia nella propria identità. Se una donna sa valutare se stessa e agisce partendo dai suoi bisogni, sentimenti e intuizioni, crea in un modo che è il suo e sperimenta la sua autorità, allora è davvero capace di dialogare con il suo maschile. Non gli è sottomessa né lo imita. Una delle prove che devono affrontare le donne di oggi non è solo quella di essere aperte alle loro esperienze, ma anche di cercare di esprimerle nel loro modo personale. Vivere la propria identità e accogliere quella dell’altro come ricchezza a beneficio di tutta la comunità. E le donne provenienti da altri paesi? Da altri tempi? Da altre culture e religioni? Cosa ne facciamo, come ci confrontiamo con loro, con le donne musulmane, Rom, buddiste, donne provenienti da paesi che fino a pochi anni fa erano inserite in società rurali? Ci confrontiamo con loro oppure ci rifugiamo nel razzismo, nel rifiuto, di nuovo complici e di nuovo responsabili della negazione della propria identità femminile, di un percorso che abbiamo già vissuto, ma che ancora rinneghiamo in un inconscio collettivo maschile che abbiamo fatto nostro? Oggi i nostri compagni ci chiedono di distinguerci dalle nostre madri perché loro hanno voglia di distinguersi dai loro padri, nel rispetto e non nel conflitto e nella competizione, ma ancora abbiamo paura di riconoscere noi stesse per cui ancora una volta corriamo il rischio di ricercare l’accettazione del grande padre e insieme ai nostri compagni subiamo il mito della grande madre. Il percorso di crescita è come un torrente che a volte sembra stagnare, in realtà va in profondità; a volte sembra tornare sugli stessi punti, in realtà sono angolazioni diverse con un’intensità diversa; a volte sembra bloccarsi, in realtà sta preparando la strada per un nuovo balzo in avanti.

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